ALDO GERBINO
Critico d'arte
Errori antichi oppongono alle nubi,
sollevate di musica, il fio denso
dei sali sotterrati in prismi e in cubi.
[Onofri, da Vincere il Drago! Ribet, Torino 1928]
Stesi sul dorso è forse un modo esemplare di godere d’un folto tappeto di nuvole: certo, una tale postura può accogliere tutto lo smalto infantile per quel quanto saremmo in grado di attribuire. Ma cosa abbiamo da rimproverarci nel risentire la fresca gioia della conoscenza sensibile che può essere attinta dal trascorso di quegli anni in cui s’è fatto uso di un occhio capace di moltiplicare fascinazioni e gioie, turbamenti e, soprattutto, quel cocciuto interrogarsi d’un tempo fanciullo caratteristico dell’incontrovertibile alba dell’esistenza? D’altronde potrebbe esser questa la maniera di raccogliere – quale valido esercizio della contemplazione – il suggerimento visivo originato dalla poesia di Hermann Hesse, Coricato sull’erba, nella polita versione di Diego Valeri. Lo scrittore di Calw, pur non parlando esplicitamente di nubi, ce li offre con quella stessa intensità presente nel piagato cielo di un notturno leopardiano (disteso, con nitore, nel XIII canto della Sera del dì di festa) in cui esse, non manifeste, ma pur presenti dal suo esser “fatto per l’affanno”, si spandono, oltremodo tangibili, lungo la vastità del cielo notturno in cui riecheggiano quei versi mai usurabili di: «Dolce e chiara è la notte e senza vento, / E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti / Posa la luna, e di lontan rivela / Serena ogni montagna». In tal maniera il Notturno con luna di Giovanna Benzi (2023), artista nata a Milano, città cui deve, oltre l’imprinting della natalità, la formazione artistica a Brera, esalta la rammemorazione del recanatese offrendo un groviglio di corpi nuvolosi, equalizzando – per quanto promossa da quell’involontarietà che soltanto l’arte sa veicolare nelle fasi creative – la percezione della figura naturale, qui posta tra l’inquietudine esistenziale coltivata nell’alveo della cultura classica, e la forza della luce in quel suo consapevole scorrere tra le pieghe atmosferiche tanto da poter essere accolte nella tela L’ultima luce (2022). In Hesse le nuvole popolano di certo il più alto grembo del cielo, sia nella trasparente azzurrità del giorno, sia nelle forme nottilucenti cariche di malinconiche stagioni. Da cosa è sollecitato Hesse, oltre che dalle «girandole di fiori» o dal «colorato vello dei chiari prati estivi»? Si assiste, sopra tutto, all’emersione di domande: se tale cielo e cose, ed erbe e forme viventi non siano il «sogno angoscioso di un dio», oppure nascondano «il grido di una forza bruta / che a liberarsi intende?». Un’interrogazione che il contemporaneo Pier Luigi Bacchini, nel testo “Forme”, compreso nelle sue Scritture vegetali, vi scorge, chiarissimo, quello stesso «Iddio selvaggio, unico. Come la ferocia nascosta / nella tenerezza precisa d’una mano». Ora ci chiediamo, quali pensieri, in questa ‘full immersion nubecolare’, spingono dalla mente, la mano di Giovanna Benzi? Quale racconto del suo esistere atmosferico alimenta il consistere dell’artista? Ci sembra ozioso, su tale registro tematico, operare noiosi parallelismi estetici nel lungo esercizio della pittura coeva, anche perché, fedeli al noto Eliot Effect che, nel suo accogliere il pensiero nietzschiano concentrato sulla “forza retroattiva del presente”, consente di rilevare in ogni prodotto d’arte (per punti di vista o di fuga o di luce) opere precedenti: una forma esemplare per cui il passato è destinato a proiettarsi nella realtà futura in virtù della sua forza di precorrimento. Tale stato contemplativo, – che nulla ha a che fare con una tessitura mimetica (storicamente ce lo indicano le magrittiane nubi vagolanti per il cielo, come in Télescope, imposte agli illusori vuoti di realtà), né tantomeno puramente ascetico – agita l’opera con un flusso emotivo fino a dilatarne la realtà e restituendo corpo a dissolventi visioni capaci comunque di consegnare, potenziati, gli accesi fuochi d’una natura oggi ferita, per le violente aggressioni fisico-chimiche, dal drastico mutare del nostro antropocene.
Patrick Waldberg, scrivendo di Fabrizio Clerici, magister dall’occhio visionario, cementa l’interazione tra il «racconto mitico» e il «romanzo interiore» elaborata nelle profondità di ogni esistenza d’arte e di scrittura; una reciprocità, avverte il critico d’arte del surrealismo, che contiene «la capacità di caricare un’opera di un potere emozionale e di allargare la sua dimensione. In generale questo vale soltanto per i pittori che agiscono nel campo della immaginazione e fra questi particolarmente per i visionari». Tale concetto si rafforza nel momento in cui Waldberg propone l’esemplare umana endiadi (creativo-intellettuale) costruita sulla potenzialità espressiva di un contemplatore di cieli come William Turner e l’intelletto acutamente analitico di un James George Frazer: esempi di artisti e pensatori che lo spingono a dedurre in che modo per «opere di questo genere il termine di passatismo sarebbe del tutto improprio». Spesso in tali lavori in cui la natura, cioè quella parte in cui l’uomo non ha priorità di azione e genesi, è dapprima immaginata per avere poi conferma in ambiti insoliti: così in Turner, con i suoi cieli attraversati dalla multiforme densità di lastre nuvolose compatte nell’aere, e soprattutto in quel trovare a Venezia, durante la sua felice esperienza italiana – lo evidenzia il critico di Oxford, Kenneth Clark nel suo lucido saggio Il paesaggio nell’arte – «la conferma di quella architettura di nuvole al tramonto che egli si era costruita con l’immaginazione». Stato della contemplazione, anche per Waldberg, pronto a restituire «sentimenti molto attuali molto più penetranti, per il ricordo di fatti appartenenti a un’altra età e che la sabbia leggendaria ha interminabilmente levigato». Si va, ordunque, da una estensa realtà, maturata dalla plastica osservazione di quella levigatezza da assegnare all’avvenente immagine della «sabbia leggendaria» del tempo (parallela all’effetto della ‘patina’ depositata dallo scorrere dei decenni, ricordataci da Brandi nella sua Teoria del restauro del 1963) adatta a sopravanzare i termini oggettivi del mondo contingente, al fine di viaggiare lungo visionarie, ma pur sempre fondative, architravi. Un viaggio che ha sempre a che fare con l’interpretazione del mondo reale, una sorta di magica costruzione di quanto ciò che ci avvolge sia ri-creabile estensibilmente superando i facili inciampi di invitanti pareidolie.
La tessitura cromatica di tale registro pittorico elaborata, in un ben preciso spazio di fedeltà psicologica ed esigenza estetica, da Giovanna Benzi, sembra in accordo con la sua propria visione, attenta, insistita, lontana dalle immagini tetre che delle nuvole ci ha affidato Pessoa, bensì proiettata verso una volontaria quanto curiosa discesa in ambito crepuscolare nel quale spazio si erge la luce col suo intenso dominio. Ne è già esempio l’olio L’ultima luce (2012) dove la sostanza della memoria e della sensibilità visuale sono sparse tra le maglie di mutevoli stratificazioni non eludenti la forma nascosta (La luna è dietro, 2010; Sole nascosto, 2014; Cosa c’è dietro, 2016) e che si offre come triturata all’interno di icone anatomicamente allacciate alla natura ippocampica, vale a dire al ricordo, alla definizione di un luogo aereo in cui gli oggetti della sua attenzione si distribuiscono con armonia nello spazio visivo e spirituale. Un desiderio di consolidarsi successivamente in una sfera immaginifica della realtà capace però di coincidere (come già accennato) con i dati essenziali di un reale assunto dalla percezione e modellato anche nell’ingannevolezza dei sensi. Dilatare, dunque, il visibile a dismisura consentendo il contatto con le sponde coscienziali; e, in accordo con Gabriele Simongini per il suo richiamo ad Emil Nolde, ci ritroviamo a nostro agio in tale immersiva ricerca sciolta nel catino di una «energia primaria», il tutto mosso nella spasmodica indagine indirizzata ad una «verità naturale» tanto cara alla poetica del “selvatico” che appartenne a Henry David Thoreau e che ricordiamo mirabilmente espressa nel suo saggio Camminare (“Walking”, 1863: “In wildness is the preservation of the world”). Nubi, per Giovanna Benzi, come sostanza di paesaggi atmosferici in cui altresì gioca un ruolo non indifferente l’analisi, in ambito filosofico ed estetico, d’una “atmosferologia” offerta dal pensiero speculativo quale oggetto di conoscenza mediata dal rapporto dei luoghi stesi come abiti sul sensorio, disseminati sul pericorporeo, mantenendo sempre più intimo il rapporto natura/esistenza umana qui contenuto nell’illuminante scatola dell’occhio. Così La montagna incantata (2016) s’impone letterariamente e orograficamente come lirica pagina di osservazione del sé, di nebulosa emergenza sulla lancia rocciosa della verità, nel transumante superamento del terrestre in raccordo con la sfera celeste. Un insieme, un collettivo sensoriale, per riflettere sulla dimensione delle proprie rimembranze, dei propri desideri, ora con un tocco, ora nella fragilità delle luci. Poi, inequivocabili, ecco avvertire echi, voci lontananti, un mormorio che ci racconta di quanto la metamorfosi di questi cieli li modelli in aree di attraversamento, uno speculare e circolare racconto del nostro pianeta, in cui, ricordando le parole dell’affascinante River: Il fiume della vita (2021), “persino i cieli hanno i loro fiumi” (un docufilm, scritto e diretto dall’australiana Jennifer Peedom), è possibile mettere in relazione i corsi d’acqua terrestri/celesti con l’umano destino. È quell’acqua di terra e nubi celebrata da Wystan Hugh Auden: essa, per Giovanna, non sembra altro che lo scrigno in cui far adagiare il miraggio contemplativo. Un abitare la vita e berne, perché no, la commossa gloria.
(Palermo, primo giorno autunnale del 2023)